SEICORDE
SEICORDE
Intervista a Giulio Tampalini
di Filippo Michelangeli
Giulio Tampalini suona la chitarra nello stesso modo in cui affronta la vita: con entusiasmo. Lo conosco da tanti anni e di lui mi ha sempre colpito la passione per la musica e la disponibilità verso il prossimo.
Sul palcoscenico ha un obiettivo semplice e ambizioso: rendere felici gli ascoltatori. Nel serio, a volte sin troppo serioso, mondo della chitarra classica è una vera rarità.
Dimenticatevi il musicista tormentato dai dubbi, l’artista mai soddisfatto di sé. Giulio è il sole e ascoltare un suo concerto è un autentico inno alla vita.Questo non vuole dire che non si ponga mille domande e che non cerchi nella musica le verità più nascoste. Ma, alla fine, la sua cifra espressiva, il suo riconosciuto talento e il successo che raccoglie dovunque vada passano attraverso una personalità positiva e ottimista.
Lo incontro a Milano, in redazione. Guardiamo insieme il dvd dell’integrale delle opere per chitarra di Villa-Lobos destinato agli abbonati a Seicorde per il 2008. Scorrono le immagini, suona come un padreterno. Mi congratulo con lui. Si schernisce, sorride, e taglia corto: «Dai che ce l’abbiamo fatta!».
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Dovrei darti del lei, come si usa nelle interviste dei giornali seri, ma ci conosciamo da 15 anni, non voglio ingannare il lettore.
La scuola chitarristica italiana è considerata una delle migliori al mondo. Tu sei uno dei suoi esponenti più in vista, quali sono le caratteristiche più importanti che la differenziano dalle altre realtà internazionali?
È vero, i chitarristi italiani sono molto stimati nel mondo perché spesso dimostrano di aver trovato un buon equilibrio tra ragione e sentimento. Nei concorsi emergiamo per la nostra innata cantabilità unita alla profonda conoscenza della forma.
Eppure nello scenario internazionale della generazione più adulta, i nostri connazionali non ci sono. Perché?
Sono fiducioso per il futuro. Abbiamo tanti giovani di talento. Il successo individuale arriverà.
Hai studiato con De Santi e Gilardino. Che cosa ricordi delle loro lezioni?
Rimangono tante cose, difficile riassumerlo in poche righe. Direi che l’aspetto tecnico non è mai stato molto considerato. La vera impronta che mi ha lasciato De Santi è stata la ricerca dell’autenticità dell’intepretazione. Mi ha insegnato a vivere l’opera musicale compenetrandola, senza limitarsi ad un’esecuzione impeccabile, ma di maniera. Gilardino, invece, mi ha dato moltissimo dal punto di vista dell’analisi, dell’approccio storico e culturale. Ha una preparazione inarrivabile. Dal punto di vista tecnico Tilman Hoppstock è stato una rivelazione. Ancora oggi molti suoi accorgimenti mi sono utili e sento la responsabilità di trasferirli ai miei allievi.
La chitarra nel Novecento è stata illuminata dal faro di Segovia che l’ha portata nelle grandi sale davanti al pubblico degli intenditori di musica. Oggi le opportunità, almeno dal punto di vista concertistico, sembrano meno invitanti per le giovani generazioni. Finito l’effetto-Segovia la chitarra è tornato uno strumento di nicchia?
L’azione di Segovia ha avuto un effetto positivo per la chitarra. Ma i suoi primi seguaci non avevano certo la sua personalità. Hanno vissuto comodamente sull’onda dei suoi successi, senza aggiungere granchè. Morto lui, sono rimasti da soli ad affrontare la scena musicale e la chitarra è tornata là da dove era partita. Qualsiasi strumento richiede grandi interpreti per mettersi in luce. La chitarra ha bisogno di uomini e donne carismatici.
Vuoi dire che abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi?
Segovia era un fuoriclasse. Oltre ad avere un talento musicale straordinario è stato capace di interpretare il ruolo di pioniere e di promotore della chitarra nel mondo musicale in generale. Ma il suo modello è irripetibile e copiarlo oggi non solo sarebbe sbagliato, ma inutile.
Nella tua carriera hai inciso un nutrito numero di cd. Che rapporto hai con la sala di registrazione e quanto sono importanti nella vita di un artista?
Ho iniziato ad incidere il primo disco nel 1996 (a 25 anni, ndr) quando vinsi il Concorso “De Bonis” di Cosenza. All’inizio non ero abituato e riascoltarmi e ho trovato utile anche a livello didattico registrare le mie esecuzioni. Mi ha aiutato a diminuire il divario tra l’intenzione musicale e la realizzazione. Poi, con il tempo, ho preso familiarità con gli studi di registrazione e oggi vivo il cd come un prodotto di ricerca personale. Mi piace l’idea di lasciare un’intepretazione accurata delle opere che prediligo.
Musica e internet. Oggi trovare informazioni sul mondo chitarristico, anche le più piccole, è diventato alla portata di tutti. Ed effettuare il download di file musicali, quantunque illegale, è un gioco da ragazzi. Così la rete ha finito per cannibalizzare la discografia e gli operatori stanno assistendo rassegnati al loro declino. Pensi che il cd abbia ancora un futuro?
Chi può dirlo? Personalmente credo che per i prossimi 20 anni si continueranno a produrre cd. La mia generazione, teconlogicamente parlando, è già vecchia e preferisce ancora conservare la musica su compact disc. A me piace toccare e leggere persino il booklet, il libretto con i commenti al disco. Non potrei mai conservare la musica soltanto nel computer.
Sei conosciuto e apprezzato anche come virtuoso. Dedichi molto tempo allo studio?
Da ragazzo studiavo di più, ma con meno metodo. Forse ho perso anche del tempo. Oggi conosco a fondo la chitarra, il mio corpo e le mie reazioni. Ottengo di più, consumando di meno.
Il corso di chitarra in conservatorio è da tempo ordinario, ovvero parificato a tutti gli altri strumenti. Da alcuni anni insegni in Conservatorio. Com’è percepita la chitarra dagli altri docenti?
Gli insegnanti di conservatorio considerano la chitarra al pari degli altri strumenti. Le resistenze maggiori e, se posso dirlo, la minor conoscenza della chitarra, si annida tra i professori d’orchestra. Quando suoni con una filarmonica sei ancora guardato con diffidenza.
Oggi imperversa e ha successo il crossover. La contaminazione dei generi piace al pubblico. Per gli altri strumenti, pianoforte, violino è una novità. La chitarra, invece, ha sempre avuto un repertorio “ibridizzato”. Penso al flamenco, al genere sudamericano, al folk, al jazz fino alla musica leggera. Che cosa ne pensi?
Così va il mondo, non possiamo opporci ai gusti del pubblico. Tuttavia penso che una cosa possa non escludere l’altra. Credo sia possibile continuare a proporre concerti più impegnativi accanto a serate di minor impegno per gli ascoltatori.
Potendo scegliere, preferiresti suonare in una piccola sala davanti a un ristretto e competente numero di spettatori oppure in uno stadio con un pubblico numeroso ma generico?
Per come sono fatto, preferisco lo stadio. Mi piace l’idea di portare la chitarra, lo strumento che amo, in mezzo alla gente.
Da alcuni anni hai fondato a Brescia, dove vivi, l’Accademia della chitarra. Come funziona?
È un centro didattico musicale dedicato esclusivamente alla chitarra classica. Io sono il direttore, mentre Antonio D’Alessandro è il coordinatore didattico. Abbiamo un centinaio di allievi dei corsi di base ai quali affianchiamo masterclass per professionisti. Nel mese di luglio si svolgono masterclass tenute dal sottoscritto, dal duo Maccari-Pugliese, da Giovanni Podera e da altri docenti. Inoltre organizziamo una serie di concerti presso il Teatro San Carlino di Brescia. Abbiamo anche un sito: www.accademiadellachitarra.it
© Michelangeli editore, Milano 2007